29/08/16
MattiaPascalC'era una volta il lutto nazionale
Magari non c'entra con Ponte, può essere comunque un utile spunto di riflessione. Così come strillone mi piace segnalare l'interessante editoriale di Michele Brambilla pubblicato sulla "Gazzetta di Parma" di domenica 28 agosto.
Ieri è stata una giornata di lutto nazionale. Non so però quanti se ne siano accorti. Le uniche direttive riguardavano l'esposizione a mezz'asta delle bandiere sugli edifici pubblici. Poi qualcun altro ha aggiunto qualche segno sua sponte: la Rai ha deciso di non mandare in onda gli spot pubblicitari, e sui campi di calcio s'è osservato un minuto di silenzio. Trascorso il quale, s'è ripreso a giocare e gridare come sempre.
Lo so che sono discorsi da vecchi: ma credo che molti lettori ricordino cos'era, fino a qualche decennio fa, un lutto nazionale. La televisione cancellava i palinsesti; cinema teatri e negozi restavano chiusi; i funerali erano funerali, senza applausi né esibizioni e discorsi; perfino i preti facevano i preti e non i sismologi. In un giorno di lutto nazionale, il Paese si fermava davvero. Ricordo quando morì Paolo VI: ero a Milano Marittima, in vacanza, e rimasi colpito nel vedere che l'intero divertimentificio (copyright Camilla Cederna) chiuse davvero le serrande: bar, cinema, discoteche. Chi ha qualche anno di più può ricordare i funerali dopo la sciagura di Superga, nel 1949. Sono immagini che si possono recuperare anche oggi: un'intera città in silenzio, le bare dei giocatori del Grande Torino che attraversano le strade e le piazze sui camion che la Fiat aveva messo a disposizione, decine di migliaia di persone che assistono a quella triste sfilata in giacca e cravatta, perché allora funzionava così, che ai funerali ci si vestiva come ai matrimoni. Era il popolo italiano del primo dopoguerra: sfibrato ma fiero, povero di quattrini ma ricco di dignità. Un'Italia ancora permeata di quella civiltà antica che, come diceva Guareschi, sa rispettare i morti.
Ho rivisto quell'Italia solo cinque anni fa, ad Alba, dov'ero andato a seguire le esequie di Pietro Ferrero, il figliolo - prematuramente scomparso - di Michele Ferrero, l'industriale della Nutella. Solo allora ho rivisto negozi, bar e ristoranti davvero chiusi per un giorno intero, e la gente di tutto il paese con il vestito della festa a riempire le piazze, senza applaudire ma magari a piangere, perché c'è anche un tempo per le lacrime.
Non voglio assolutamente fare polemiche, ne hanno già fatte troppe in questi giorni del post terremoto, soprattutto su quella cloaca che è il mondo dei social (il "ruttodromo", l'ha giustamente chiamato Massimo Gramellini), un mondo tanto utile per molte cose, ma che ha il difetto di mettere sullo stesso piano, come ammoniva Umberto Eco, il premio Nobel e l'ubriaco da bar. Non voglio far polemiche, dicevo: solo chiedermi, però, se - tutti presi come siamo ad "ottimizzare" il tempo, per fare fare e fare sempre qualcosa - non abbiamo perso l'antica saggezza di chi sapeva pure fermarsi almeno un istante (ci sarà tempo, per parlare di norme antisismiche) e pensare a qualcosa che vada oltre il contingente. "L'uomo che si crede signore assoluto e padrone della propria esistenza vede sgretolarsi in un attimo ogni umana certezza", ha scritto monsignor Francesco Cavina, che da vescovo di Carpi ha vissuto il terremoto del 2012. Ecco che cosa dovrebbe essere, un lutto: anche un fermarsi, appunto. Ma forse oggi una fermata non ce la possiamo più permettere, lanciati come siamo verso chissà quali illusioni.