Mi permetto di segnalare l'editoriale (che trovo bellissimo) del direttore
Michele Brambilla, con la storia di un barbone, pubblicato sulla
"Gazzetta di Parma" di ieri. Visibile anche online, sul sito gazzettadiparma.it
FONTE
Chiedo scusa, ma oggi voglio raccontare la storia di un barbone. Si chiamava Mario Ceccon, aveva 52 anni e da sei chiedeva l'elemosina al passaggio a livello di via Valera. Lo faceva con garbo, senza insistere, e a tutti regalava un sorriso. Se n'è andato il 29 marzo scorso ma solo ieri gli hanno fatto il funerale, perché non era nessuno. «El pareva nisun», come cantava Enzo Jannacci del suo barbone che «el purtava i scarp del tennis».
Ma invece era qualcuno, perché ieri nella chiesa parrocchiale di Sant'Evasio di via Colli c'erano più di mille persone al suo funerale. Mille persone che gli volevano bene. Ed è questa la storia che vi voglio raccontare, una storia che ribalta molti dei concetti che abbiamo di rispettabilità, di scalata sociale, di rapporti con il prossimo.
Mario Ceccon era nato a Domodossola ed era figlio del capostazione di Santa Maria Maggiore, una piccola fermata sulla tratta Vigezzina che porta a Locarno. Si era diplomato in ragioneria, poi aveva fatto il concorso come il padre ed era diventato a sua volta ferroviere. Aveva anche lavorato, roba minima, ma un impiego sicuro. Però suo padre era morto che lui era giovane, e poco dopo era morta anche sua mamma. Chissà, forse è stato quello, o forse qualcos'altro, fatto sta che Mario a trent'anni aveva scelto di vivere da randagio. Se n'era andato dalle parti di Piacenza, poi diciassette anni fa era venuto a Parma e aveva trovato vitto e alloggio alla Caritas. A un certo punto però a quelli della Caritas ha detto «grazie», ma meglio la libertà. Aveva trovato da dormire in una stazione dismessa di via Fleming, facendosi una cameretta con i cartoni del supermercato. Qualcuno del quartiere aveva storto il naso: via quello lì, non vogliamo barboni, noi. Allora lui si era sistemato vicino al passaggio a livello di via Valera, dormiva lì, in un sacco a pelo. Alle sette di mattina si piazzava su una seggiolina rossa e aspettava qualche spicciolo. A mezzogiorno staccava, perché anche un barbone ha diritto alla sua pausa pranzo, e il suo santo era don Augusto Fontana, che gli faceva avere un piatto di pasta.
Qualche tempo fa ha cominciato a sentir male a una gamba. S'era messo a girare con una stampella e insomma, per un po' è andato avanti così. Ma il male era brutto, quella brutta bestia che si chiama cancro, e alle 12,30 di un martedì Mario se n'è andato. Non c'aveva in tasca neanche una lira, e non c'era in giro neanche mezzo parente per pagargli il funerale. Così gli amici del bar Gulliver di via Colli hanno cominciato una raccolta fondi e alla fine hanno tirato su 2.500 euro; il resto l'ha messo il Comune e così Mario ha avuto il suo bravo funerale e avrà una lapide al cimitero. «Sono certo che al funerale ci sarà un sacco di gente», aveva detto nei giorni scorsi Franco, il titolare del bar Gulliver, e sembrava Moschin in "Amici miei" quando muore Noiret, "il Perozzi". Solo che nel film al funerale del Perozzi vanno meno di quattro gatti, al funerale di Mario invece c'erano mille amici: amici veri, perché la vita di un uomo che regala sorrisi a un passaggio a livello può contare più di quella di uno che sa l'inglese e fa carriera. Chiedo scusa se ho dedicato l'editoriale di un giornale a un barbone, ma credo che una città che ha dedicato un monumento a Enzo Sicuri, "al mat", possa capire.
Michele Brambilla - Gazzetta di Parma