Paola De Micheli FONTE tratta oggi l'argomento
Banca d'Italia su Libertà.
Riporto la parte "tecnica" del suo intervento quale contributo a comprendere meglio l'argomento di cui stiamo discutendo.
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La Banca d'Italia non è mai stata pubblica, ma proprietà degli istituti bancari e assicurativi. Storicamente, la Banca nasce da un processo di federazione delle Banche pre-unitarie, con un modello analogo a quello della Federal Reserve americana. La legge del 1936, pur fatta durante il fascismo, ha scelto di non assoggettare la Banca d'Italia al Governo, ma di lasciarla lontana dalle ingerenze della politica. La riforma approvata dal Parlamento mantiene quella scelta.
Con le privatizzazioni degli anni '90 e il successivo processo di concentrazione bancaria si è realizzato un processo di concentrazione anche delle azioni di Banca d'Italia, in possesso oggi di una serie di istituti di credito nazionali.
La Banca d'Italia resta un istituto di diritto pubblico e i soci proprietari delle azioni non hanno alcun potere sulla governance dell'istituto e sulla gestione delle attività istituzionali della Banca. Tuttavia l'assetto proprietario in vigore fino a prima della riforma poteva lasciare spazio eccessivo ai grandi gruppi bancari e alla possibilità di esercitare qualche influenza sulle decisioni della Banca centrale, che deve invece restare indipendente.
Per questo motivo, con il riassetto nessuno potrà possedere più del 3 per cento delle azioni di Banca d'Italia. Gli azionisti che oggi ne possiedono di più dovranno vendere. Potranno comprare, oltre a banche e assicurazioni, anche le Fondazioni ex bancarie e i fondi pensione, con la limitazione che deve trattarsi di società aventi sede legale in Italia. Per la Banca d'Italia si è scelto il modello "proprietà diffusa", invece di chiedere allo Stato di acquistare le sue azioni, una soluzione che avrebbe richiesto una copertura finanziaria di svariati miliardi, da togliere ad altre voci di spesa pubblica o da ottenere con un aumento delle tasse. Con l'azionariato diffuso si è abbracciata una filosofia diversa, per avere una Banca d'Italia in posizione di servizio istituzionale rispetto allo Stato piuttosto che in posizione di subordinazione nei confronti del Governo.
L'altro aspetto cruciale della riforma riguarda la rivalutazione del capitale della Banca d'Italia, che fino a ieri ammontava a "soli" 156 mila euro, la cifra stabilita nel 1936 e mai aggiornata. Si è deciso di procedere a una rivalutazione del capitale originario, separando il calcolo dei dividendi dalle riserve - poiché in queste ultime sono compresi anche i frutti delle attività pubbliche e istituzionali di Banca d'Italia. Finora era mancato un criterio omogeneo per questa rivalutazione: il merito della riforma è di stabilire un criterio oggettivo e uniforme per effettuarla.
Il valore del capitale viene portato a 7,5 miliardi con la nuova regola che agli azionisti verrà riconosciuto un rendimento non superiore al 6 per cento del capitale investito (non più, quindi, delle riserve). Quindi, il massimo dei dividendi attribuibili in futuro è di 450 milioni, una cifra inferiore al massimo oggi raggiungibile. Anche se, in tutti e due i casi, si tratta di valori puramente teorici, perché lo Statuto continua a conferire alla Banca, come in passato, piena discrezionalità nella decisione sugli utili da distribuire. Dato che la Banca d'Italia è un investimento assolutamente privo di rischio, è altamente probabile che il tasso di rendimento accettabile dal mercato sia molto inferiore al 6 per cento.
Un'operazione che porta a oggettivi benefici per lo Stato, perchè finora le azioni di Banca d'Italia non potevano far parte del capitale di vigilanza dei soggetti che le possedevano: grazie alla riforma, potranno essere inserite nel capitale di vigilanza. I 7,5 miliardi derivanti dalla rivalutazione rafforzeranno il patrimonio del sistema bancario senza spendere neanche un euro del bilancio pubblico. I proprietari delle azioni rivalutate le venderanno sul mercato per scendere al 3 per cento: i soldi che andranno alle banche verranno dal mercato, non dallo Stato. Basti pensare che in Germania, invece, lo Stato ha dovuto sborsare ben 64 miliardi di euro di spesa pubblica per ricapitalizzare le banche tedesche.
La Banca centrale europea ha dato il via libera all'operazione con un parere molto chiaro nel prescrivere che le riserve andranno ricostituite con adeguati accantonamenti negli anni futuri e che la Banca d'Italia deve mantenere una piena autonomia di finanziamento. E' opportuno precisare infine che l'operazione non investe le riserve in oro (100 miliardi), né quelle speciali (circa 8 miliardi) ma solo quelle ordinarie e straordinarie (circa 15 miliardi). In effetti, l'ammontare complessivo delle riserve della Banca d'Italia è il terzo al mondo, dopo Stati Uniti e Germania e il secondo in Europa. Tali riserve non potrebbero essere usate per altri scopi, ad esempio per finanziare investimenti pubblici o altre forme di spesa pubblica, non si tratta infatti di un "tesoretto" a cui liberamente attingere, ma di un attivo che garantisce l'intero paese all'interno dell'Unione Economica e Monetaria.
Le riserve non vengono spese neppure con l'operazione effettuata dal decreto, perché esse cambiano semplicemente collocazione all'interno dello stato patrimoniale della Banca d'Italia, spostando 7,5 miliardi da riserve a capitale sociale.
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FONTE lo Statuto della Banca d'Italia